Ingaggio: dal 26 Gennaio al 23 Febbraio 1970
Luogo: International Hotel - Las Vegas, Nevada
di: Albert Goldman
Giornale: "LIFE"
Pubblicato il: 20 Marzo 1970
UN CAMPIONE DI INCASSI
Il 20 Marzo 1970 il magazine "LIFE" ha pubblicato un articolo relativo all'ingaggio di Elvis Presley nel periodo dal 26 Gennaio al 23 Febbraio presso l'International Hotel di Las Vegas. L'autore è Albert Goldman, giornalista tristemente conosciuto dai fans di Elvis Presley per aver scritto negli anni '80 una biografia che definire discutibile sarebbe oltremodo riduttivo.
Nell'articolo pubblicato sulla rivista, Goldman ha esordito con il titolo "Un campione di incassi" ed ha proseguito come segue:
Splendida! - o la medesima parola effeminata ugualmente espansiva - è l'unico modo per descrivere la più recente epifania di Elvis Presley a Las Vegas.
Da quando Marlene Dietrich ha sbalordito le prime file con la vista di quelle gambe racchiuse dall'anca alle caviglie in un abito trasparente, nessun artista ha mai elettrizzato così tanto questa città annoiata con un'esibizione solista.
Senza pizzicare una corda, gorgogliare una nota o offrire un accenno di movimento dell'anca. Elvis ha incantato un tosto pubblico da serata d'esordio formata da addetti stampa ed intrattenitori semplicemente salendo sul palco con il costume dell'anno.
Cosa indossava? Niente di sfarzoso, mia cara, solo una tuta bianca strepitosa, scollata fino allo sterno ed amorevolmente aderente alle sue spalle larghe, alla pancia piatta, ai fianchi stretti e beh, è una bella visione.
E poi ci sono le sue perle - un sacco di perle lucenti, non cucite sul suo costume, ma indossate sfacciatamente come ornamenti per il corpo.
Perle raccolte in grossi mazzi intorno al suo collo, perle che ornavano la sua vita affusolata in una favolosa cintura da karate: una corda di perle alternata ad una corda d'oro, l'intera fascia legata su un fianco con le estremità che sfioravano il ginocchio sinistro.
Con i suoi enormi diamanti che scintillavano di rosa e viola dalle sue dita ed il suo sorriso fanciullesco che lampeggiava timidamente attraverso la sua enorme massa di lucenti capelli neri. Elvis sembrava una porzione abbondante di cheesecake in versione maschile, pronta per le centinaia di donne che lo ammiravano attraverso il binocolo da teatro.
La superstar è così abbagliante, il suo narcisismo immacolato è così irresistibile, che difficilmente ti accorgi delle enormi forze che ha radunato per sostenerlo: l'orchestra di 38 elementi stipata come la Philharmonic di Las Vegas, la prima fila di componenti della Memphis Mafia vestiti di nero, armati di chitarre e batteria ed il coro di otto voci integrate (le Sweet Inspirations e gli Imperials).
Elvis dà inizio al suo spettacolo in stile James Brown, prendendo il microfono e scuotendolo a ritmo di "I'm All Shook Up", l'orchestra di tamburi che smuove la sua enorme struttura dietro di lui.
Arrivando alla pausa della chitarra, lui strimpella lo strumento acustico appeso al suo collo con la noncuranza di un esperto impostore. Il numero finisce bruscamente con Presley che scatta di profilo e punta la sua chitarra come una baionetta verso il coro.
Il resto della serata scorre liscio mentre la star scivola tra medley di vecchie melodie o si rilassa in elaborati arrangiamenti imbottiti dei suoi nuovi inni.
Ogni numero si conclude con un profilo di stampo classico: Elvis come lanciatore del disco, Elvis come Sagittario. Elvis come abitante morente della vecchia Gallia.
Tra una posa e l'altra, offre scorci del suo umorismo contorto: "Ho la bocca talmente secca, che sembra che Bob Dylan ci abbia dormito dentro tutta la notte".
Non proprio il politico erotico che Jim Morrison ha dimostrato di essere quando si è spogliato sul palco.
Elvis gestisce molto bene il suo elettorato, afferrando di tanto in tanto una donna dai capelli blue a bordo palco e baciandola con forza sulla bocca. Guardare le donne tra il pubblico lanciarsi verso il palco come salmoni che risalgono una cascata diventa il vero sollievo comico dello spettacolo.
Il culmine del monodramma di Presley è un formidabile quadro di Cecil B. DeMille. L'orchestra si staglia contro un fondale blue ceruleo, mentre i suoi membri sono trasfigurati da una luce dorata intensa che si riversa dalle quinte.
Mentre i musicisti, tutti insieme, sostengono un potente accordo da cattedrale, la Grande Speranza Bianca cade su un ginocchio nella classica posa da gladiatore di Jolson, salutando le migliaia di persone in sala - salutando, forse, l'edificio, con i suoi putti tridimensionali che tessono metri di drappeggio di chiffon tra colonne di plastica in stile classico.
Più grandioso del "Fountainblue", più volgare del Grossinger's, l'International Hotel, il motel per eccellenza, 1.500 stanze che ricordano più Howard Johnson che Howard Hughes, ha trovato un'attrazione abbastanza magnetica da spingere la generazione di reclusi over 30 fuori dai loro ranch ed a prendere aerei senza scalo nella Valley of Loose Gold, dove il Re dei Oldy-Moldy-Goldys governava il suo popolo con eterna giovinezza, gioia e allegria.