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Può essere realmente possibile che un documentario su Elvis Presley, profondo e pensato come quello ideato da Thom Zimny, "Elvis Presley: The Searcher", non esista già?
Dopo decenni di pubblicazioni di home video, film e documentari di varia qualità, questo film in due parti della durata di 3 ore e mezza, appare come una pietra miliare, un
marchio, qualcosa a cui si dovrebbe dare il benvenuto calorosamente come lo si è dato al libro in due volumi di Peter Guarlnick "Last Train To Memphis" + "Careless Love" (In italiano: "L'ultimo treno per Memphis" + "Amore senza freni") degli anni '90.
Togliendo strati calcificati di mito e caricatura dedicati alla psicologia dietro la carriera di Elvis Presley, la sua serietà e sensibilità, non ci si sorprende di quelli che hanno seguito le serie di documentari che Zimny ha creato su Bruce Springsteen.
La più grande decisione di Zimny è stata quella di tenere tutti i suoi intervistati fuori dallo schermo, usando solamente le loro voci per accompagnare fotografie del passato e video.
Non è il primo regista di documentari ad usare questa tecnica, sicuramente, ma pochi registi che hanno accesso a Bruce Springsteen, Tom Petty e Priscilla Presley oserebbero nascondere i loro visi ai fans.
La scelta funziona per molte ragioni: permette a Zimny di includere filmati occasionali da interviste precedenti (includendo, in modo parsimonioso, quelle con Presley stesso) come se parlasse direttamente con noi; stabilisce una sorta di sensazione di trance; gli permette di intrufolarsi in filmati locali, che altrimenti sarebbero stati occupati da teste parlanti.
Pertanto adesso, quando ascoltiamo l'amico di gioventù di Elvis, Red West, oppure lo storico Bill Ferris, stiamo vedendo il mondo che il più eclettico amante della musica consumava avidamente: filmati di tutti, da Howlin' Wolf ai predicatori santificati; scene di strada da Tupelo, Mississippi, e poi Memphis, dove si è trasferita la famiglia, un luogo in cui la cui vita vibrante della città l'ha reso eccitante come Parigi per i nuovi arrivati da piccoli paesi.
Il paese non era integrato, ma era diverso, e l'Elvis che incontriamo era occupato a scivolare dentro ai night club frequentati da neri, case di culto, raccogliendo le sue influenze, come una gazza, mentre assemblava "la sua versione di se stesso".
E' stata un'emozione entrare in collegamento col musicista in questi anni, anche se solo attraverso il racconto di altri, e Zimny lo segue, mentre il giovane cantante fa l'incontro della sua vita con Sam Phillips della Sun Records.
Petty ci racconta che, "per un sacco di nobili ragioni", Phillips stava cercando un ambasciatore bianco che potesse portare avanti il sound eccitante della nuova musica nera oltre i dischi della razza del ghetto commerciale, creati dalle grandi case discografiche.
Ha avuto molto più di quanto poteva sperare nel sound di Presley, che, lontano dal voler scimmiottare Big Joe Turner, ha mescolato toni musicali che pochi potevano immaginare potessero avere senso.
Zimny ed i suoi intervistati offrono un'abbondanza di storie piene di colore di questo periodo, tracciando un successo commerciale che ha preso vita rapidamente, ma solo, come ha puntualizzato l'archivista Ernst Jorgensen, grazie all'enorme ammontare di lavoro sul circuito dei tour.
E poi arriva il Colonnello.
Zimny e compagnia spiegano il fascino del cosiddetto manager di Elvis, il Colonnello Tom Parker.
Il cantante aveva serie ambizioni come attore, voleva vendere dischi a livello nazionale e Phillips gestiva da solo un'operazione regionale che non poteva dargli queste possibilità.
Mentre la Prima Parte va verso la chiusura, vediamo il Colonnello dare al suo cliente tutto quello che vuole.
Nel suo primo film, Presley era così serio riguardo la recitazione, da non imparare solamente le sue battute, ma anche quelle di tutti gli altri. Non voleva nemmeno cantare nei film, ma i produttori avevano idee differenti. Come fece lo zio Sam, che arruolò le star e mise la loro carriera in stallo.
La Seconda Parte è, sicuramente, un'esperienza più buia, ma il film è più complicato di quanto un serio fan di Elvis possa comprendere.
Priscilla Presley, che è apparsa in qualche momento della prima parte, qui offre molto di più, aiutandoci a capire come essere forzati a fare una serie di film schifosi sia una sorta di prigione artistica; e poi essere sistemati nei casinò degli hotel, come la sua famosa residenza a Las Vegas, sia un'altra.
In uno dei pochi momenti espressionisti, Zimny presenta una serie di ritagli di Elvis in cartone in una stanza nebbiosa, concentrandosi da uno all'altro: l'uomo che ha creato così amorevolmente la sua originale personalità, era ora incollato in ruoli superficiali che altri gli avevano imposto di recitare.
Per quanto le cose erano diventate difficili per lui personalmente, il film presenta Presley come un uomo che ha continuato (nonostante alcuni periodi svogliati) a sentirsi guidato dal bisogno di creare musica spettacolare.
Springsteen e Petty rifiutano il cinismo anche quando si arriva agli anni dei jumpsuits.
Quest'ultimo ammira "l'audace pazzia" delle dimensioni della band che aveva messo insieme, nell'affrontare materiale che altri avrebbero definito pomposo, come il medley di Mickey Newbury "An American Trilogy"; Springsteen ammira Elvis per "aver tentato di essere un vascello che potesse contenere l'esperienza americana nella sua interezza".
Elvis voleva anche portare questa esperienza nel resto del mondo.
Non avendo mai lasciato gli Stati Uniti d'America, eccetto che per il servizio militare, voleva andare in tour in Europa ed in Giappone, ma il Colonnello aveva ragioni per reprimere tali ambizioni.
Per tutte le due parti del documentario, Zimny è tornato ai filmati del "Comeback Special" del 1968, presentandocelo come un esempio di come l'essere una star possa essere compatibile con l'abilità artistica.
Ora, alla fine, questo motivo diventa emotivamente profondo, in quanto collega gli ideali di Elvis riguardo l'armonia tra le razze al mondo politico intorno a lui e alle sofferenze future.
Source: hollywoodreporter.com